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Ciro Cenatiempo

Il nostro mondo lo creiamo ogni giorno grazie alla parola che lo chiama, lo nomina; alla facoltà di cunto che ci appartiene in modo esclusivo. L’architettura – la consapevolezza con la quale l’idea si fa progetto – contribuisce alla trasformazione del mondo. E la parola poi torna a ri-crearlo, una volta trasformato.

La mutazione della terraqueità quotidiana, incarnata nella fattualità architettonica – dunque artistica – è una (l’unica?) verità sulla quale la parola può fondare la sua funzione vitale, proprio nella fase in cui il «nostro» mondo è caduto nella trappola urlata dell’incertezza, dello spaesamento e del silenzio fragoroso dei motti falsi, delle notizie replicanti che non possono essere nuove e restano mute.

Quando la parola può effettivamente ri-creare il mondo e conferire un senso identitario alle biografie, si compie il percorso rigenerativo dell’uomo: e lo arricrea, termine proteiforme della lingua napoletana che vale come dono «dell’allegria, consolazione, felicità». Una felicità che s’incarna nell’illuminazione bruciante di una amicizia davvero nuova e presente – sguardi, strette di mano, sorrisi, ascolto – che abita la sospensione del tempo e ignora il grande imbroglio dei like frullati nell’attimo social.

Sono queste alcune delle considerazioni che ho espresso in sintesi – e qui riprendo comunque in breve – quando Giovannangelo De Angelis, presidente del Pida e amico per statuto, mi ha chiesto di coordinare l’evento per l’installazione sulla parete settentrionale del Torrione di Forio, della scritta in arabo «Non di solo pane», che faceva parte dell’ex Padiglione della Santa Sede a Expo Milano 2015. Una scritta ri-creatrice e in movimento – appunto «Il viaggio della parola», come è stata definita questa iniziativa simbolicamente planetaria – che ha categorizzato il monumento foriano in modo altro: non più strumento di difesa per gli sbarchi dei cosiddetti Saraceni, ma «ponte culturale e faro della civiltà italiana ed europea».

La soirée sulla terrazza dell’hotel Villa Carolina ha certificato l’amicizia con il co-fautore, insieme a Giovannangelo dell’appuntamento, il professore Marco Imperadori del Politecnico di Milano, al quale – era a Toronto – sono fischiate piacevolmente le orecchie per un applauso riconoscente voluto da tutti: Grazia Torre, consigliere dell’ordine degli archjtetti di Napoli e provincia; Stefania Danzi per la Fondazione Pesenti; Alessio Pesenti di Nord Zinc; Francesco Chiavarini per la Caritas Ambrosiana; Gianni Matarese, consigliere comunale di Forio; Raffaele Mirelli, presidente dell’associazione InSophia e ideatore del Festival di filosofia di Ischia e Napoli; e, soprattutto, Michele Reginaldi dello studio Quattroassociati architetti di Milano che ha realizzato il Padiglione della Santa Sede, con la compagna e ospite d’onore, Ginette Caron, designer di fama internazionale che ideato e curato il layout grafico delle scritte sul Padiglione.

Con loro, insieme a molti. Amicizia potente, dunque.

Quest’amicizia è legata al valore della sacra scrittura «in viaggio» che invoca spiritualità, slanciandosi verso l’alto del divino, così come è slanciata e traguardante la silhouette del Torrione. Una torre che subisce ora una temporanea metamorfosi: è come un filone di pane poggiato in verticale, dunque in bilico, non più austero ed esclusivo nella sua funzione storica di «vedetta» sul mare. Il pane frugale della necessità condivisa e non del consumo. Un Torrione non più rigido strumento panottico «contro» le invasioni, ma «veglia» accogliente, punto di vista – come pure è stato, in un gioco di triangolazioni e di fuochi verso la montagna e l’orizzonte – e di riferimento per i viaggiatori del futuro. Assume una sostanza originale, dimentica l’ansia e si fa speranza, attesa d’abbracci. Senza la quale l’occhio s’asciuga, s’acceca, intorno si fa deserto e il verbo sparisce.

Foto Enzo Rando